A seguire la
“Cronistoria del delitto” pubblicata in occasione del XXI anniversario della
morte di Giacomo Matteotti (10 Giugno 1945) e la commemorazione fatta da
Filippo Turati il 27 Giugno 1924. Immagine da ebay.it
Era nato a Fratta Polesine il 22 maggio 1885 da
vecchia famiglia benestante, che lo avviò agli studi superiori.
Studiò legge con lo Stoppato e si laureò, continuando
poi ad interessarsi, a laurea ottenuta dei problemi prediletti, assetato
com’era di giustizia, non solo nel campo della legge ma pure in quello sociale.
Entrò giovane nel movimento socialista, attrattovi
dall’apostolato di Filippo Turati e di Camillo Prampolini, e vi portò il
contributo della Sua forte intelligenza, del Suo coraggio e del Suo
temperamento esuberante.
Pubblicista di valore ottenne la libera docenza
all’università di Bologna, e venne eletto per la prima volta dai socialisti
della circoscrizione di Padova e Rovigo. Fu rieletto nel 1921 ed alla Camera fu
uno dei deputati più attivi, interessandosi principalmente dei problemi
finanziari.
Dopo la seconda scissione del Partito Socialista fu
segretario del Partito Unitario e nuovamente eletto nel 1924, nelle elezioni
fatte dopo la riforma elettorale Acerbo, inviato al Parlamento dagli elettori
delle circoscrizioni del Veneto e del Lazio-Umbria.
Il 30 maggio in un vivace discorso denunciò le
violenze ed i brogli commessi dal fascismo per ottenere la maggioranza,
segnando con tale discorso la Sua condanna a morte.
Il 10 giugno venne rapito con un’automobile e assassinato
nei pressi di Roma: il cadavere nascosto venne rinvenuto soltanto due mesi dopo
nel bosco della Quartarella.
Il processo si risolse in una macabra farsa e mentre
gli esecutori ebbero pene irrisorie, ben presto amnistiate, i mandanti non
furono nemmeno disturbati.
Dumini, il principale esecutore del delitto, visse poi
alle spalle del fascismo, dal quale ebbe ogni specie di benefici, segno questo
non dubbio della connivenza fra gli assassini e le alte cariche del governo e
del partito.
***
La commemorazione di Filippo Turati
Il 27 giugno del 1924
Filippo Turati pronunciò un commosso discorso in ricordo dell'amico assassinato
durante la riunione delle opposizioni parlamentari. Queste le parole
dell'anziano leader socialista:
Vorrei che a questa riunione non si desse il nome
logoro, consunto - specialmente qui dentro - di "commemorazione". Noi
non "commemoriamo". Noi siamo qui convenuti ad un rito, ad un rito
religioso, che è il rito stesso della Patria.
Il fratello, quegli che io non ho bisogno di nominare,
perché il Suo nome è evocato in questo stesso momento da tutti gli uomini di
cuore, al di qua e al di là dell'Alpe e dei mari, non è un morto, non è un
vinto, non è neppure un assassinato.
Egli vive, Egli è qui presente, e pugnante. Egli è un
accusatore; Egli è un giudicatore; Egli è un vindice. Non il nostro vindice, o
colleghi. Sarebbe troppo misera e futile cosa. Egli è qui il vindice della
terra nativa; il vindice della Nazione che fu depressa e soppressa; il vindice
di tutte le cose grandi, che Egli amò, che noi amammo, per le quali vivemmo,
per le quali oggi più che mai abbiamo, anche se stanchi e sopraffatti dal
disgusto, il dovere di vivere.
E il dovere di vivere è anche, e soprattutto, il
dovere di morire quando l'ora lo comanda. Di morire per rivivere; di morire
perché tutto un popolo morto riviva; di morire perché il nostro sangue
purifichi le zolle, le sacre zolle della Patria, che alla Patria - se le
fecondi sudore di servi - procacciano messi avvelenate.
E questo vivo, che è qui accanto a me, alla mia
destra, ritto nella sua svelta figura di giovane arciere, di cui voi vedete il
sorriso, di cui voi scorgete il cipiglio - perché non è un'allucinazione,
perché li vedete, perché non vi inganno - questo vivo, questo superstite,
questo ormai immortale e invulnerabile, fatto tale dai nemici nostri e
d'Italia; questo vivo, nell'odierno rito, è trasfigurato. È Lui ed è tutti. È
uno ed è l'universale. È un individuo ed è una gente.
Invano gli avranno tagliato le membra, invano (come si
narra) lo avranno assoggettato allo scempio più atroce, invano il suo viso,
dolce e severo, sarà stato sfigurato. Le membra si sono ricomposte. Il miracolo
di Galilea si è rinnovato. A che le vane ricerche, o farisei d'ogni stirpe? A
che gli idrovolanti sul lago, a che il perlustrare la macchia, il frugare nei
forni? L'avello ci ha reso la salma. Il morto si leva. E parla. E ridice le
parole sante, strozzategli nella gola, che furono da uno dei sicari tramandate
alle genti, che son Sue quand'anche non le avesse pronunciate, che son vere se
anche non fossero realtà, perché sono l'anima Sua; le parole che si incideranno
nel bronzo sulla targa che mureremo qui o sul monumento che rizzeremo sulla
piazza a monito dei futuri: "Uccidete me, ma l'idea che è in me non la
ucciderete mai... La mia idea non muore... I miei bambini si glorieranno del
loro padre... I lavoratori benediranno il mio cadavere... Viva il
Socialismo!". È qui trasfigurato, o colleghi.
E di ciò il mio egoismo si duole, il mio piccolo
egoismo di individuo, di fratello maggiore, di anziano, di padre; ché Egli non
è più soltanto il mio figliolo prediletto. L'uomo di parte, l'assertore nobile ed
alto di un'idea nobilissima, quegli che fu, per noi socialisti, tutto in una
volta, il filosofo, il finanziere, l'oratore, l'organizzatore, il commesso
viaggiatore, l'animatore sovra tutto, il pensiero insomma e l'azione congiunti
- anche l'azione più umile che altri sdegnava - l'unico, l'insostituibile;
colui che, come già Leonida Bissolati pel Cremonese, travolto dalla sublime
follia dell'amore dei suoi contadini, del suo proletariato polesano, per esso
aveva rinunziato indifferente agli agi e alla tranquillità della vita, alla
seduzione degli studi cari in cui più eccelleva, e di sé e della sua giovinezza
poteva dire, col poeta della Versilia "e tutto ciò che facile allor
promettono gli anni,/ io 'l diedi per un impeto lacrimoso di affanni,/ per un
amplesso aereo in faccia all'avvenir" e per questa sua passione divorante,
gelosa, era l'esule in patria, il bandito dalla sua terra, il maledetto dai
parassiti della sua terra, il profugo eterno, sempre presente soltanto dove
l'ora del periglio battesse la diana; quest'uomo, questa figura così staccata e
viva su lo sfondo verde e bigio di questo singolare paesaggio politico, non
sparisce, no, non scolora, ma si riaffaccia oggi in troppo più ampia cornice.
Quello che era cosa nostra, è divenuto anche la cosa vostra, l'uomo di tutti,
l'uomo della storia.
E, ingrandito così, quasi è tolto a noi, come alla
famiglia dolorante, perché è divenuto un simbolo. Il simbolo di un oltraggio
che riassume ed eterna cento e cento mila altri oltraggi, tutti gli oltraggi
fatti ad un popolo; la figura che compendia tutti gli altri trucidati e
percossi per lo stesso fine, da Di Vagno a Piccinini, agli infiniti altri
oscuri; il simbolo di una stirpe che si riscuote; il simbolo di un passato che
si redime, di un presente che si ridesta, di un avvenire che si annunzia; della
immortale democrazia, della indefettibile giustizia sociale, che si rimettono
in cammino; dell'Italia che, dopo una parentesi di spaventoso Medio Evo, risale
nella luce dell'età moderna, rientra tra le genti civili. Il simbolo e la
Nemesi: la Nemesi augusta, o signori, che è della storia.
Cerchi il Magistrato le colpe e le ferocie secondarie
e minori; incalzi gli esecutori codardi e i mandanti immediati; compito anche
questo, altamente rispettabile e necessario. Frughi e tenti di sventare la
congiura degli intrighi, di snodare il groviglio dei silenzi comprati o
ricattati, le mendicate omertà, e il tagliaborse che si annida nell'assassino.
Tutta questa è la cronaca. La Nemesi vola più alto. Essa addita il grande mandato;
il mandato che erompe da più anni di violenze volute, di violenze inanellate
alla frode, di consenso cercato ed irriso; dal sarcasmo di una pacificazione,
proclamata a parole e impedita e violentata nei fatti; dall'incitamento perenne
alla soppressione del pensiero libero e di chiunque lo incarni, la quale è
soppressione della vita, della Patria, della civiltà. Addita il mandato che
scese dall'istrionismo bifronte, che adesca insieme e minaccia, che offre il
ramo d'olivo ed affila nell'ombra i pugnali. Addita il mandato che salì dalle
viltà incommensurabili, dalle fughe abbiette, dagli obliqui fiancheggiamenti,
dai silenzi complici, dalla corruzione demagogica esercitata su anime semplici,
talvolta generose ed eroiche, persino di combattenti insigni od oscuri, i quali
in buona fede hanno creduto che un regime di minaccia e di prepotenza potesse
essere ricostruttore, che la più immonda curée potesse germogliare la
rigenerazione del Paese, che gli errori e le colpe fugaci di una massa illusa
(e non cerchiamo illusa da chi; e non domandiamoci se veramente esistano le
colpe di un popolo) dovessero espiarsi, non col richiamo severo alla ragione,
ma con la catena dei delitti, con la tregenda delle sopraffazioni esercitate su
quel popolo; col dileggio di ogni umana dignità; con la tragedia del terrore,
accoppiata alla coreografia di vetusti trionfi mal redivivi. Lo credettero in
buona fede; alcuni - sempre più radi - lo credono ancora. Ma per poco, ormai.
L'oscena leggenda è sfatata. Giacomo Matteotti l'ha dispersa; l'ha dispersa per
sempre. L'edificio dell'iniquità e dell'ipocrisia crolla da ogni parte.
Ah! sì. I masnadieri avevano bene scelto, avevano
mirato giusto, sopprimendo il nostro migliore. Mirando al suo cuore, sapevano
di mirare al nostro cuore. Ma ignoravano la sanzione inesorabile che fu sempre
nelle vicende del mondo. Ignoravano - fu confessato - che il delitto era
soprattutto un errore. Che la vittima sarebbe stata il giustiziere. Che la
coscienza di un popolo, che ha millenni di storia e di gloria, si assopisce, si
comprime, ma non si spegne. Che i morti non pesano soltanto, ma sopravvivono.
Giacomo Matteotti vince morendo e ci accompagna e ci guida.
Se commemorazione è questa, se questo è un lugubre
rito, non è l'epicedio del suo tumulo ignorato, non è la riconsacrazione di una
salma che non può riapparire e che più è presente quanto più è assente e
celata. Altro è oggi il funerale. Altri sono i morti. L'edificio dell'iniquità
e dell'ipocrisia crolla da ogni parte. Neppure la speculazione ultima e più
scaltra ed audace - quella sulla nostra speculazione - ha alito e ali per
reggersi. Lo sguardo vitreo della vittima illumina un panorama d'infamia che i
più non sospettavano ancora. Ove la sua ombra si leva, ivi si stende attorno la
solennità del deserto.
Noi parliamo da quest'aula parlamentare, mentre non vi
è più un Parlamento. I soli eletti stanno sull'Aventino delle loro coscienze,
donde nessun adescamento li rimove sinché il sole della libertà non albeggi,
l'imperio della legge non sia restituito e cessi la rappresentanza del popolo
di essere la beffa atroce a cui l'hanno ridotta. Le futili contese tacciono fra
essi, e una grande unità si costituisce fra essi tutti e fra essi e l'anima
della Nazione. Quella che fu la maggioranza, è ridotta a un reparto di milizia,
cui è intimato di obbedire in silenzio, perché ogni sua parola la
disgregherebbe. I due tronconi non si saldano. E i politici già si domandano se
vi sia più un Governo, se vi possa essere più un Governo. Se vi è per l'Italia;
se vi è per il resto del mondo. Ma un paese moderno non vive senza queste due
cose che vennero meno: un Parlamento rispettato e libero; un Governo legale e
non sospettato.
Signori, dall'eccidio di Giacomo Matteotti la nuova
storia d'Italia incomincia. A noi un solo compito: esserne degni. Eppure,
neppure questo ci consola. Perché, se un eccidio, e il più brutale degli
eccidii, era necessario, una cosa non era necessaria: che colpisse Lui. E, se
parve, come ho detto, ch'egli fosse il più designato perché era il più forte e
il più degno, dice l'effetto che non sempre è profetessa la malizia dei
masnadieri. Lui giovane, Lui forte, Lui armato di tutte le armi civili, Lui
temerario nel coraggio, Lui che si fece volontario della morte - questo
fanciullo dagli occhi pieni di bontà, che tutti ci rimbrottava ed a tutti
indulgeva, perché tutti sapeva comprendere e sapeva la inanità delle prediche
contro la umana fralezza -; Lui, figlio di una madre antica, che geme; Lui,
sposo di una sposa giovane, che paventa di smarrire il senno; Lui, padre di tre
teneri bimbi, virgulti inconsci che un giorno metteranno le spine, verso i
quali Egli aveva tenerezze di madre, come, nell'intimità della casa felice,
pareva un figlio alla sposa. No! inferocire su questo idillio non era
necessario! Altrove poteva la sorte cieca e maligna eleggere il suo strumento
di pace e di giustizia. E questa vecchia carcassa di chi oggi vi parla, che la
vita ha tutta ormai spesa e che il proprio inverno avrebbe barattato con gioia
per salvarvi la primavera superba del nostro eroe, è oggi dilaniata dal
rammarico, direi dal rimorso, di non averlo vigilato abbastanza, di non essersi
imposto, col peso della anzianità a cui forse Egli avrebbe obbedito, alle sue
gagliarde imprudenze...
Lasciate, o colleghi, ch'io cessi queste parole, così
ìmpari, e che il singhiozzo minaccia di rompere; ch'io dimentichi dove siamo e
donde parliamo; ch'io mi inginocchi idealmente accanto alla salma del figliuolo
prediletto, e gli carezzi la fronte e gli chieda perdono della mia, della
nostra indegnità e gli dica tutta la gratitudine nostra, la gratitudine di
tutto un popolo. E gli giuri, a nome di voi tutti, che la Sua ombra, presto,
sarà placata.
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