busto Giacomo Matteotti, Montecitorio, Roma |
Il 10 giugno 1945, subito dopo la liberazione dell'Italia invasa, in Montecitorio, nel corridoio che conserva l'effigie marmorea degli uomini maggiori della nostra storia parlamentare, furono scoperti i busti di Giacomo Matteotti, di Giovanni Amendola, di Antonio Gramsci. Seguì una rapida commemorazione. Gli onorevoli De Caro, Grieco, Romita, parlarono a un uditorio che ascoltava col cuore gonfio di commozione e di ricordi.
Quando il Presidente, onorevole Vittorio Emanuele Orlando, l'ultimo superstite della grande eloquenza parlamentare, illustrò la unità ideale del loro sacrificio, sembrò che le figure dei tre deputati martiri risorgessero vive dal morto passato.
I loro nomi - egli disse - resteranno nell'ordine del giorno permanente della futura Camera. Con la grandezza del loro olocausto essi hanno meritato di essere considerati sempre, perennemente, i rappresentanti del popolo italiano.
E non senza significato la celebrazione, semplice e austera, ebbe luogo nella grande sala della Lupa, ove venti anni innanzi, fuori dell'aula sorda e grigia, si riunirono, per l'ultima volta in regime parlamentare, i deputati dell'Aventino, per elevare la protesta del diritto e pronunciare la esecrazione del delitto e la condanna aperta della tirannide.
In quella sala, venti anni prima, aveva risuonato, rotta dalla commozione o fremente di sdegno, la parola severa e ammonitrice di un grande italiano, morto anch'egli in esilio. E là dove Filippo Turati aveva commemorato Giacomo Matteotti, presenti Giovanni Amendola e Antonio Gramsci, ancora in vita ma già consacrati alla stessa sorte dall'implacabile odio nemico, e denunciato all'Italia e alla coscienza morale universa il grande mandato, che fu l'ordine di uccidere un deputato per farne ammutolire la voce accusatrice e sopprimere col diritto di critica la funzione e la vita stessa della tribuna parlamentare: là, nella stessa sala, quasi a rinnovare un atto di fede, si raccolsero, venti anni dopo, i superstiti del Parlamento, abolito dalla tirannide, i sopravvissuti di tutte le opinioni e di tutti i partiti democratici, sotto la presidenza di un grande maestro di diritto pubblico e di nobiltà civile, per onorare, insieme con Giacomo Matteotti, il primo deputato martire, coloro che gli successero nel martirio: Giovanni Amendola e Antonio Gramsci, gli altri due deputati uccisi con più lunga e lenta perfidia: uccisi perché deputati, a causa del loro mandato, nell'esercizio del loro mandato.
Noi vogliamo che nel volume del Centenario, destinato a rievocare la storia, le vicende, la grandezza e la decadenza, gli splendori e le miserie dell'istituto parlamentare, siano insieme ricordati i tre martiri che - come disse Vittorio Emanuele Orlando - compongono insieme una unità ideale infrangibile. Perché non si disperda il concorde insegnamento che si leva dal loro martirio.
Matteotti, Amendola, Gramsci.
Tre nomi. Tre caratteri. Tre diverse tempre umane. Tre diversi orientamenti politici. Ma attraverso questi tre rappresentanti della sovranità popolare, che affermarono ugualmente, col sacrificio della vita, lo spirito religioso della libertà che rifiuta i ceppi, noi celebriamo, la perenne grandezza della tribuna parlamentare, fatta augusta dal martirio. La morte eroica di questi parlamentari è la conferma della vitalità insopprimibile del Parlamento.
Sorto in Italia e fuori, traverso il sangue e le tradizioni del più puro martirio, fu lo sbocco necessario di tutte le rivoluzioni proclamate nel nóme di quelli che lavorano producono e soffrono -e sono la grande maggioranza e là parte migliore delle nazioni -per arginare gli smisurati arbitrii del principe e le incontrollate licenze dei dittatori. E diventò, grado a grado, il più potente organo della volontà popolare.
Giovanni Amendola - a cui fummo più vicini, nella nostra giovinezza, soprattutto nell'ultima fase evolutiva del suo pensiero - ponendo come complemento necessario della libertà politica la libertà economica (la libertà dalla tirannide dell'individuo, della casta, del ceto è un'astrazione senza realtà se non si accompagna alla libertà dalla tirannide della miseria e del bisogno: altrimenti è la libertà di morire di fame), tracciò con precisione dialettica le linee somme della nuova democrazia che egli definì della libertà e del lavoro. E formulando i principii di questa nuova formazione politica, capace di raccogliere sempre più larghi strati di popolo e d'incanalare nell'unità della vita statale lo sterminato esercito del lavoro, amava ripetere che il governo deve essere forte, che forte può essere solo il governo legittimo, che govèrno legittimo è soltanto quello investito di legittimità dal consenso del popolo sovrano.
Ma il governo non rappresenta il popolo, se il pòpolo non è rappresentato dal Parlamento, istituto insostituibile della volontà collettiva, la quale in condizione eccezionale può anche esplodere nei raptus della piazza contro il Parlamento, ma che non può diventare cosciente, responsabile, organica, costruttiva, legittima se dalla piazza non passi in Parlamento.
Giovanni Amendola (che fu soprattutto un parlamentare) pose al centro della vita politica il Parlamento. E fu colui che lo difese a viso aperto. Ma anche Matteotti e anche Gramsci, che pur ebbero visioni e valutazioni diverse della lotta politica e della rappresentanza popolare, furono condannati alla morte violenta ò lenta, perché non potessero, come rappresentanti del popolo, esprimere il loro pensiero.
Ora fissiamo bene in mente queste verità semplici ed eterne. Ricordiamo questi principii che ogni tanto dimenticano i falsi democratici, riproducendo posizioni mentali ed affermazioni teoriche che furono fatali dopo il 1920.
Bisogna diffidare di coloro che direttamente o indirettamente tendono a svalutare il Parlamento. Preparano il governo assoluto, la dittatura militare o la federazione dei clubs irresponsabili.
11 Parlamento è il Paese. Non ci sono cattivi Parlamenti. Una Camera cattiva sarebbe sempre migliore di un'anticamera, che, in mancanza della Camera, è l'anticamera della dittatura.
Ma se il Parlamento è difettoso vuol dire che è in crisi il Paese. La sua funzione essenziale, in che consiste del resto la superiorità dei nostri regimi rappresentativi, è appunto questa: di riflettere tutti gli interessi nella loro discordia, di raccogliere tutte le correnti nella violenza del loro urto, di riprodurre esattamente la varietà delle condizioni morali ed economiche nel Paese.
Riflettere per conciliare, raccogliere per incanalare, riprodurre per comporre: dare disciplina alle insorgenti esigenze e ai diffusi malumori collettivi, che sorgono nel Paese dalla agitata anima della folla con la maschera della rivolta. Come la confluenza degli urti ne devia e compone l'impeto, così la convivenza delle vecchie e nuove esigenze significa mutua limitazione, cioè collahorazione e progredimento,. traverso l'armonica trasfusione nei vecchi istituti dei bisogni nuovi. Perché ogni corrente, ogni tendenza, ogni partito ha una verità da esprimere, una funzione storica da compiere, una necessità sociale cui ubbidire.
Ed è la tribuna parlamentare, questo grande megafono che raccoglie la voce del popolo e la trasmette ai governi, che assolve questo vitale compito d'incitamento, di propulsione, di correzione, di collaborazione, di controllo.
La fine della tribuna è l'inizio della tirannia.
Quando la tribuna parlamentare tace, tacciono anche i giornali e si disgregano i partiti. E allora finisce il vaglio delle idee, l'urto delle lotte civili, lo schieramento delle opinioni, i movimenti di pensiero, il contrasto delle correnti politiche, l'attrito delle forze ideali che illuminano la coscienza civile. La democrazia agonizza. La libertà muore. Questo avviene quando la tribuna parlamentare non ha più voce. Perché la tribuna parlamentare non avesse più voce il fascismo assassinò Matteotti, Amendola, Gramsci.
Il popolo diventa inerme quando la tribuna tace. E quando il popolo è inerme o inerte, i tiranni si arrampicano sul cadavere delle libertà strangolate.
Non dimentichiamolo.
Il sangue dei tre martiri non fu versato invano se gl'Italiani ricorderanno l'insegnamento che si leva dal loro cruento sacrificio.
Difendere ad ogni costo la tribuna parlamentare.
Enrico Molè
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