di Emanuele
Bellato
La mia terra natia è quella dell’idea non
muore. Quel Polesine che Giovanni Ferro ha chiamato in un suo libro la culla
del socialismo. Qui si gridava la boje! La pentola era vuota come sempre, ma
quella volta l’acqua bollendo l’aveva scoperchiata. Contadini sfruttati, mai
garantiti nella miseria quotidiana, si ribellarono, non dissero più “comandi
sior paron!”.
Nel Polesine abbiamo conosciuto il socialismo patriottico del carbonaro Alberto Mario, poi dalla solitudine di Recanati giunse un dottore di nome Nicola Badaloni per curare anime e persone che morivano di fame e pellagra. Un apostolo della libertà, per alcuni un santo. Il vecchio Badaloni ormai era troppo vecchio, per alcuni il suo socialismo solidarista era addirittura superato.
Qualcuno guardando oltralpe e conquistato da Sorel diceva che la violenza era la vera arma rigeneratrice per l’avvenire del socialismo. Quel qualcuno dirigeva l’Avanti e fece molta strada. Diventò addirittura capo del governo, ma poi gli eventi lo travolsero e fece una brutta fine. Si chiamava Benito Mussolini.
Badaloni però aveva visto e scommesso bene su quel giovane di Fratta, figlio di un emigrato trentino. Quando il martire della liberà fu ferocemente massacrato dai sicari del regime, il fine intellettuale piemontese, Piero Gobetti, affascinato dalla sirena di Gramsci e dal suo ordine nuovo, gli dedicò dalle colonne della “Rivoluzione Liberale” pagine e pagine, elevate e sentite. Cantò le lodi del socialista persecutore dei socialisti, prima di essere lui stesso bastonato e umiliato dalla prepotenza e dalla viltà di chi sa imporre la propria ragione solo con la forza.
In una lettera di solidarietà, spedita nel febbraio del 1926, dall’esule londinese Gaetano Salvemini alla vedova Velia in Matteotti, l’illustre storico e politico antifascista scrisse: “Io attraversai, fra il 1921 e 1924, un periodo di stanchezza fisica e di depressione morale. Detestavo i fascisti, ma non avevo fiducia degli antifascisti. Me ne stavo fra i miei libri, con i miei giovani amici, risoluto a non rientrare mai più nella politica attiva. Ma quando Lui fu ucciso, io mi sentii in parte colpevole della Sua morte. Lui aveva fatto tutto il Suo dovere: e per questo era stato ucciso. Io non avevo fatto il mio dovere: e per questo mi avevano lasciato stare. Se tutti avessimo fatto il nostro dovere, l’Italia non sarebbe stata calpestata, disonorata da una banda di assassini. Allora presi la mia decisione. Dovevo ritornare ad occupare il mio posto nella battaglia. Ed ho fatto il possibile per attenuare in me il rimorso di non avere sempre fatto il mio dovere”.
Contro ogni dittatura deve alzarsi il grido di chi crede nel sacro valore della libertà! In questo imperativo risiede l’insegnamento più prezioso di Giacomo Matteotti.
Ancora una volta dispiace constatare che Matteotti sia stato dimenticato. Verrebbe da accostarlo al destino di un altro martire, ovvero Aldo Moro, entrambi uomini del fare, metodici, alacri e rigorosi nel loro lavoro, seri, competenti, entrambi per temperamento e cultura inclini alla mediazione, entrambi ricordati solo per l’ultimo drammatico periodo della loro vita. Eppure la loro fine è il naturale approdo di una concezione della militanza politica che caratterizzò tutta la loro vita. Così Maria Fida Moro preferisce raccontare il padre “vivo” e non solo quello delle lettere dal “carcere del popolo”, così noi dovremmo riscoprire, dal punto di vista storico, il Matteotti con le “braghe curte” iniziato alla “religione” socialista dallo sfortunato fratello maggiore Matteo, in una terra prostrata dalla miseria, dove l’emigrazione verso il Sud America era l’unica via di salvezza.
Negli uomini del presente, in tutti quei politici che mettono il bene comune prima dell’ interesse personale, in coloro che difendono la democrazia e non dimenticano il prossimo, in tutti quelli che, nonostante tutto, guardano con fiducia al futuro e non si rassegnano, Matteotti vive!
Nel Polesine abbiamo conosciuto il socialismo patriottico del carbonaro Alberto Mario, poi dalla solitudine di Recanati giunse un dottore di nome Nicola Badaloni per curare anime e persone che morivano di fame e pellagra. Un apostolo della libertà, per alcuni un santo. Il vecchio Badaloni ormai era troppo vecchio, per alcuni il suo socialismo solidarista era addirittura superato.
Qualcuno guardando oltralpe e conquistato da Sorel diceva che la violenza era la vera arma rigeneratrice per l’avvenire del socialismo. Quel qualcuno dirigeva l’Avanti e fece molta strada. Diventò addirittura capo del governo, ma poi gli eventi lo travolsero e fece una brutta fine. Si chiamava Benito Mussolini.
Badaloni però aveva visto e scommesso bene su quel giovane di Fratta, figlio di un emigrato trentino. Quando il martire della liberà fu ferocemente massacrato dai sicari del regime, il fine intellettuale piemontese, Piero Gobetti, affascinato dalla sirena di Gramsci e dal suo ordine nuovo, gli dedicò dalle colonne della “Rivoluzione Liberale” pagine e pagine, elevate e sentite. Cantò le lodi del socialista persecutore dei socialisti, prima di essere lui stesso bastonato e umiliato dalla prepotenza e dalla viltà di chi sa imporre la propria ragione solo con la forza.
In una lettera di solidarietà, spedita nel febbraio del 1926, dall’esule londinese Gaetano Salvemini alla vedova Velia in Matteotti, l’illustre storico e politico antifascista scrisse: “Io attraversai, fra il 1921 e 1924, un periodo di stanchezza fisica e di depressione morale. Detestavo i fascisti, ma non avevo fiducia degli antifascisti. Me ne stavo fra i miei libri, con i miei giovani amici, risoluto a non rientrare mai più nella politica attiva. Ma quando Lui fu ucciso, io mi sentii in parte colpevole della Sua morte. Lui aveva fatto tutto il Suo dovere: e per questo era stato ucciso. Io non avevo fatto il mio dovere: e per questo mi avevano lasciato stare. Se tutti avessimo fatto il nostro dovere, l’Italia non sarebbe stata calpestata, disonorata da una banda di assassini. Allora presi la mia decisione. Dovevo ritornare ad occupare il mio posto nella battaglia. Ed ho fatto il possibile per attenuare in me il rimorso di non avere sempre fatto il mio dovere”.
Contro ogni dittatura deve alzarsi il grido di chi crede nel sacro valore della libertà! In questo imperativo risiede l’insegnamento più prezioso di Giacomo Matteotti.
Ancora una volta dispiace constatare che Matteotti sia stato dimenticato. Verrebbe da accostarlo al destino di un altro martire, ovvero Aldo Moro, entrambi uomini del fare, metodici, alacri e rigorosi nel loro lavoro, seri, competenti, entrambi per temperamento e cultura inclini alla mediazione, entrambi ricordati solo per l’ultimo drammatico periodo della loro vita. Eppure la loro fine è il naturale approdo di una concezione della militanza politica che caratterizzò tutta la loro vita. Così Maria Fida Moro preferisce raccontare il padre “vivo” e non solo quello delle lettere dal “carcere del popolo”, così noi dovremmo riscoprire, dal punto di vista storico, il Matteotti con le “braghe curte” iniziato alla “religione” socialista dallo sfortunato fratello maggiore Matteo, in una terra prostrata dalla miseria, dove l’emigrazione verso il Sud America era l’unica via di salvezza.
Negli uomini del presente, in tutti quei politici che mettono il bene comune prima dell’ interesse personale, in coloro che difendono la democrazia e non dimenticano il prossimo, in tutti quelli che, nonostante tutto, guardano con fiducia al futuro e non si rassegnano, Matteotti vive!
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