Domenica 9 giugno 2013 a Fratta Polesine Mauro Del Bue, direttore del quotidiano Avanti! Online (che ha gentilmente autorizzato la pubblicazione comprensiva di immagine), ha con queste parole commemorato (89° Anniversario) Giacomo Matteotti
È per me un grande onore essere qui a celebrare una delle più significative personalità del mondo socialista italiano. Ringrazio chi mi ha chiesto di commemorare Giacomo Matteotti in occasione dell’ottantanovesimo anniversario del suo martirio. Mi diffonderò sulla sua vita di socialista, sul delitto e le sue motivazioni, sull’attualità del suo messaggio politico. Giacomo Matteotti era un socialista padano. Come il mio Prampolini, come il cremonese Leonida Bissolati, come il ravennate Nullo Baldini, come il bolognese Giuseppe Massarenti. Anche se rispetto a Prampolini e Bissolati egli non apparteneva alla prima generazione socialista, quella che aveva fondato il partito nel ferragosto del 1892, costruendo già prima le sue fondamenta.
Apparteneva però a quella stessa tendenza, alimentata di spirito pragmatico e di forte impulso ideale. Come quelli che lo avevano preceduto, come lo stesso Filippo Turati, Matteotti era stato avvinto dal socialismo come fonte di giustizia alle prese, com’erano tutti costoro, con la miseria opprimente delle popolazioni delle campagne, che faticavano a sopravvivere nonostante il duro lavoro ed erano vittime di gravi malattie e di una morte precoce. I socialisti sentivano amore per i più deboli, amore di giustizia, che aveva saputo rapire anche l’autore di Cuore, Edmondo De Amicis, il quale scrisse il fondo dell’Avanti in occasione del primo maggio del 1897, cinque mesi dopo la nascita del quotidiano socialista in quel freddo giorno di Natale del 1896. Giacomo Matteotti sapeva che per perseguire i suoi ideali non avrebbe dovuto attendere mitiche ore X, quello sciopero generale al quale faceva riferimento il soreliano Arturo Labriola, che poi si convertì al riformismo, più tardi flirtò col fascismo e poi morì comunista. Una delle differenze sostanziali tra riformisti e rivoluzionari, se ci pensate bene, è che i riformisti, tranne casi eccezionali, rimasero tali per tutta la vita, spesso i rivoluzionari cambiarono invece le loro convinzioni iniziali. Pensiamo, al di là del caso Mussolini che certo è il più eclatante, a quello di Nicola Bombacci che fondò con Bordiga il Partito comunista a Livorno nel 1921 e poi morì impiccato a testa in giù con la Buonanima. Turati, Prampolini, Treves, Matteotti rimasero loro stessi. E oggi ci propongono la sola versione di socialismo che non sia stata ripudiata dalla storia.
Giacomo Matteotti era nato a Fratta Polesine il 22 maggio del 1885 da una famiglia benestante, anche se di umili origini. Frequentò le scuole a Rovigo e si laureò in Giurisprudenza a Bologna nel 1907. La stessa laurea di Turati, di Prampolini, di Treves, lo stesso percorso di avvicinamento al socialismo. Più vicino al messaggio di Benoit Malon che di Marx, più attento all’ultimo Engels che ipotizzava con l’espandersi del suffragio universale una evoluzione democratica verso il socialismo, che non alle infatuazioni sindacaliste rivoluzionarie del primo novecento che prospettavano la violenza rigeneratrice e che poi verranno recepite anche da un altro messaggio politico, anche Matteotti si accosta al socialismo con una concezione costruttiva. E inizia a lavorare per la conquista dei pubblici poteri nelle amministrazioni locali, è infatti consigliere provinciale socialista di Rovigo nel 1910, mentre nel Psi ancora prevaleva la maggioranza riformista di Turati e l’esigenza di collaborare coi liberali alla Giolitti, per tutelare e allargare i diritti dei lavoratori. Di lì a un anno la fiducia in Giolitti vacillò. E quando il leader piemontese iniziò l’impresa coloniale di Libia la corrente riformista del Psi si spaccò. Da una parte Turati, Treves, Prampolini, lo stesso Matteotti, sia pur da un avamposto provinciale, dichiararono conclusa quell’esperienza, dall’altra Bissolati, Bonomi, Cabrini, invece, ritennero che la collaborazione dovesse continuare. I riformisti si divisero e ne approfittarono i rivoluzionari, tra i quali emerse con forza il carattere deciso e spavaldo di un giovane romagnolo nato a Predappio, quel Mussolini che di Matteotti diverrà il principale bersaglio dopo la sua conversione fascista. E che lo ripagherà come sappiamo. Al congresso di Reggio Emilia del 1912 i riformisti di destra vennero espulsi dal Psi dopo l’approvazione dell’ordine del giorno Mussolini, che di li a poco diverrà anche direttore dell’Avanti!.
E da allora la componente riformista resterà sempre in minoranza nel partito fino al congresso di Palermo del 1981. Matteotti, come Turati, Treves, Prampolini, Zibordi sarà poi su posizioni decisamente neutraliste di fronte al primo conflitto bellico, contrariamente a Bissolati e allo stesso Mussolini, che nel 1914 si distaccherà per questo dal Psi fondando il quotidiano “Il Popolo d’Italia”, di orientamento interventista, pubblicato anche grazie ai finanziamenti francesi. Matteotti, così come sarà il più deciso tra i riformisti a condannare il primo fascismo, scrutandone le pieghe, indagandolo nelle cause, denunciandone i soprusi, così fu il più intransigente tra i riformisti a condannare la guerra. Venne per questo minacciato dai nazionalisti e dopo un discorso tenuto nel 1916 fu addirittura condannato e internato a Messina per qualche tempo. Era evidente che la concezione costruttiva del socialismo, quella che nel 1921 a Livorno, Turati volle sottolineare come “il socialismo che diviene nelle cose e nelle teste” e che non è “il miracolo di un giorno o di un’ora”, e che “non diviene per altre vie che questa, perché ogni scorciatoia non fa che allungare il cammino”, perché “la via lunga è la sola breve”, quella composta di pubbliche amministrazioni da conquistare democraticamente, di sindacati e cooperative, di giornali e scuole pubbliche, di servizi municipalizzati, fermentata da organizzazione, educazione, riscatto, era evidente che tutto questo presupponesse il mantenimento e il rafforzamento della democrazia. La via riformista senza democrazia era un vicolo cieco.
Una vita senz’aria. Ecco perché furono soprattutto i riformisti a battersi contro il fascismo già dall’inizio, mentre i rivoluzionari comunisti pensavano che in fondo tra dittatura e democrazia borghesi non ci fosse differenza, e che anzi la prima potesse consentire di avvicinare l’ora della rivoluzione proletaria. Furono personaggi come Matteotti, Zibordi, lo stesso Carlo Rosselli, oltre a Piero Gobetti, che indagarono il fenomeno fascista, ne afferrarono la pericolosità e anche il livello alto di popolarità che poteva raggiungere in Italia a seguito della vittoria in guerra e dopo il tentativo, dopo l’ottobre bolscevico del 1917, di fare come in Russia. Due vie nuove, quella fascista e quella comunista, si erano così aperte per un’Italia in subbuglio in un dopoguerra in cui anche i socialisti compirono il grave errore di non capire le esigenze dei combattenti, che erano tornati dal fronte dopo un bagno di sangue che era costata la vita a 650 mila italiani, più del doppio delle vittime della seconda guerra, prevalentemente giovani e giovanissimi, e che aveva gettato nel lutto una parte cospicua di famiglie. Coloro che avevano avuto la fortuna di ritornare erano spesso osteggiati, mentre nei comuni conquistati dalla sinistra si gettavano alle ortiche le bandiere tricolore sostituendole con quelle rosse. Perfino Turati venne processato politicamente al congresso di Roma del 1918 perché aveva assunto, dopo Caporetto, una posizione favorevole alla difesa in armi del suolo patrio, minacciato dall’invasione austro-tedesca. La maggioranza del Psi s’infatuò, nell’immediato dopoguerra, del mito bolscevico e indicò nella dittatura del proletariato il suo obiettivo strategico. Si allargarono ancora più le distanze dentro il partito e al congresso di Bologna, nel 1919, il Psi scelse addirittura di aderire alla nuova Internazionale comunista, contro il parere dei riformisti divenuti nel frattempo una ristretta minoranza.
In quell’anno Giacomo Matteotti divenne per la prima volta deputato. In quelle consultazioni politiche, le prime col suffragio universale con soglia di accesso a 21 anni, ma che continuava ad escludere le donne, e col metodo proporzionale, il Psi raggiunge il suo massimo storico col 32 per cento dei consensi. Nelle consultazioni precedenti, quelle del 1913, era stato eletto nel collegio di Lendinara, in provincia di Rovigo, Giuseppe Soglia, un maestro romagnolo che era stato chiamato a Reggio Emilia per dirigere le scuole comunali. Una sorta di felice invasione reggiana nel vostro Polesine. Il Psi, nel 1919, era il primo partito e assieme ai popolari di Sturzo, neonati, disponeva della maggioranza del Parlamento italiano. Ci voleva poco a dar vita a un governo progressista. E invece i neo bolscevichi del Psi, da Serrati, che poi si rifiutò di espellere i riformisti nel 1921, disattendendo i 21 punti di Mosca, cosa che invece fece nel 1922, e con lui Gramsci, che sparava le sue raffiche contro i riformisti dalla colonne dell’Ordine nuovo, e con loro Bombacci e Bordiga, pensavano ad altro. Non alla via parlamentare, ma a quella insurrezionale. Si allargò un conflitto politico ed etico. Famosa la battuta dei tre pellegrini socialisti a Mosca Lazzari, Maffi e Riboldi di fronte a Lenin, i quali risposero, all’intimazione del padre della rivoluzione di scegliere la violenza, che erano “brave persone”. O l’analisi di Prampolini sulla dittatura del proletariato. Essendo il proletariato la maggioranza perchè non servirsi della democrazia? Sul mito russo il Psi si divise addirittura in tre fra il 1921 e l’ottobre del 1922. A Livorno, nel gennaio del 1921 nacque il Pcdi, e nel 1922 i riformisti furono espulsi dal Psi, che voleva unificarsi coi comunisti, nel 1924 Nenni lo impedirà, e nacque il Psu del quale Giacomo Matteotti fu segretario.
Matteotti, Turati, Prampolini espulsi dal Psi su ordine di Lenin, un atto che rappresenta una delle pagine più nere della sua storia, una storia che in realtà rinacque proprio grazie al Psu di Matteotti. Il segretario del nuovo partito socialista si schierò subito a favore dell’unità dei socialisti e nel 1924, dopo l’uscita dal Psi di Serrati e dei terzinternazionalisti, definiti terzini, che avevano direttamente scelto di iscriversi al Partito comunista, propose l’unità di tutti i socialisti specificando di essere sempre stato “favorevole all’unità perché, al di sotto delle frasi e delle forme”, egli scrive, “ho sempre visto una identità sostanziale tra tutti i socialisti e un’antitesi netta soltanto col comunismo”. Questo articolo venne pubblicato su “La Giutizia”, organo nazionale del Psu, a poche settimane dal suo discorso parlamentare. I massimalisti del Psi giudicavano impossibile l’unità col partito di Matteotti che non comprendesse anche i comunisti, proprio mentre il partito di Matteotti lanciava un’offensiva senza precedenti contro il fascismo. Matteotti aveva scritto nel 1923 un opuscolo di cento pagine, “Un anno di dominazione fascista”, che malgrado il sequestro a cui era stato sottoposto egli cercò di diffondere in tutta Italia. Già nel 1921 Matteotti aveva scritto l’ ‘Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia”, che denunciava le violenze durante la campagna elettorale del 1921.
Il suo martirio è sempre stato messo in relazione alle clamorose denunce contenute nel suo discorso parlamentare del 30 maggio del 1924. Fu Matteotti a denunciare i brogli e le irregolarità delle elezioni e ad accusare il governo di Mussolini di aver così violato più volte la legge. Matteotti, più che non altri, riteneva che nei confronti del fascismo non ci fosse altro da fare se non l’azione più risoluta per la denuncia delle illegalità e della violenza. S’era opposto recisamente a qualsiasi dialogo con Mussolini sconfessando i tentennamenti di Gino Baldesi e dello stesso Ludovico D’Aragona. Nel suo discorso tenuto alla Camera era stato più volte interrotto. Aveva proposto con un ordine del giorno di annullare le elezioni, ordine del giorno bocciato dalla maggioranza. Una volta terminata la seduta avrebbe confidato all’amico Giovanni Cosantini: “Adesso preparatevi a fare la mia commemorazione”. La repressione scattò subito. Nel pomeriggio del 10 giugno Matteotti scompare. Si viene subito a sapere che è stato aggredito da cinque sconosciuti e portato a forza nella loro automobile. Poco giorni dopo la sconcertante rivelazione. Matteotti è stato ucciso. I presunti responsabili vengono subito arrestati. L’opposizione parlamentare manifesta immediatamente la sua protesta per il barbaro omicidio e decide di astenersi dai lavori parlamentari. Nasce il cosiddetto Aventino. Si risalì subito all’auto usata per il prelevamento di Matteotti. Apparteneva a Filippo Filippelli, direttore del Corriere italiano. La Camera chiuse i lavori e vennero arrestati, tra gli altri, Cesare Rossi, capo ufficio stampa della presidenza del Consiglio che chiamerà in causa lo stesso Mussolini quale mandante dell’omicidio, Giovanni Marinelli, Filippo Filippelli e Amerigo Dumini, squadrista toscano, stipendiato dalla presidenza del Consiglio, assieme agli altri uomini che con Dumini facevano parte della banda (Albino Volpi, Giuseppe Viola, Amleto Poveromo, Auguto Malacria, tutti provenienti dall’arditismo milanese). Recentemente la pubblicistica sul delitto Matteotti avanza la tesi di un coinvolgimento nell’assassinio del leader socialista di ambienti legati all’alta finanza e alla monarchia, che proverebbe, per alcuni, la completa estraneità dal delitto di Mussolini, mentre per altri, pur con un movente diverso, la confermerebbe appieno. Il movente sarebbe costituito dal pericolo dell’esplosione di uno scandalo a seguito di un’annunciata interpellanza di Matteotti sulle tangenti pagate dalla società prolifera Sinclair, il cui testo sarebbe stato contenuto nella cartella sequestrata al momento del suo prelevamento e mai più rintracciata. Per alcuni queste tangenti avrebbero interessato direttamente la monarchia, per altri il governo.
Può anche essere che le ragioni fossero più d’una. di carattere politico e anche morale. Questo nulla toglierebbe alla nobiltà del gesto di Matteotti. Anzi, ne verrebbe vieppiù accresciuta la sua forza di combattente contro le violenze, la sopraffazione, l’immoralità. Il delitto sarebbe stato intenzionale secondo il figlio di Matteotti, Matteo, e glielo, avrebbe confermato l’autore, piangente, il Poveromo, in carcere nel 1951, poco prima di morire. Su Matteotti Turati ebbe parole ispirate alla più sentita commozione. Disse di lui: “Egli era il più forte e il più degno”. Il delitto Matteotti colpì al cuore il regime, che barcollò. Il fallimento della tattica aventiniana, la divisione dei partiti antifascisti, il ritorno in aula dei comunisti, finirono per indebolire la linea politica dell’opposizione e il fascismo riuscì a reggere a quella che pareva a tutti come il preludio della sua fine. Reggerà per altri vent’anni. Ma il mito di Matteotti durerà assai di più. E sarà consegnato alla storia come il sacrificio più puro di un temerario, eroico cavaliere della democrazia. Il suo coraggio resterà scolpito nella memoria di tutte le coscienze. Si potrebbe perfino paradossalmente sostenere che è stato Matteotti a uccidere Mussolini e non il contrario. Il suo messaggio si mostra per taluni versi a noi ancora attuale. Quello di un socialista riformista attento ai temi del lavoro e della solidarietà, che lottava nel suo territorio polesano per il riscatto delle plebi oppresse dalla miseria e dalla malattia. Quello di un democratico che sfida un regime costruito sulla violenza e la denuncia con ostinazione. Oggi Matteotti e più vivo che mai e dispiace che qualcuno voglia prendersi gioco della sua vita di uomo politico, di socialista democratico. Come furono i suoi figli, Matteo, segretario nazionale del Psdi, poi socialista autonomista del Psi, e poi, ancora, ministro socialdemocratico, e Giancarlo, più volte parlamentare, che segui il fratello nel partito di Saragat a qualche anno distanza e che ho avuto il piacere di conoscere nei corridoi della Camera dei deputati, dove a volte mi incrociava soffermandosi a parlare di politica con me. Ho avuto modo di leggere qualche giorno orsono un articolo, che riprendendo una recente pubblicazione, conteneva accuse alla famiglia di Matteotti, che non riprendo, perché fuori tema e luogo, e critiche anche su di lui, a proposito delle violenze che si consumarono nel biennio rosso nella sua provincia. Francamente non comprendo come egli avrebbe potuto, in una realtà arretrata e densa di lotte aspre, controllare e guidare ogni lega, ogni sollevazione, ogni occupazione, ogni fermento sociale. Ma accusare Matteotti di essere complice o quanto meno neutrale rispetto a qualsiasi forma di violenza, lui che è morto per le sue denunce contro la violenza, mi pare assurdo e paradossale.
Viviamo oggi in un sistema politico con partiti senza storia e a volte anche senza idealità. Posso anche aggiungere che negli ultimi anni abbiamo vissuto una profonda crisi di democrazia, con parlamentari nominati dai leader dei partiti e non scelti dai cittadini, con sindaci, presidenti di province e regione che nominano i loro assessori, con listini regionali che cooptano i consiglieri, mentre abbiamo deciso di sopprimere le circoscrizioni nelle città con meno di 250 mila abitanti e di eliminare, nella istituzione provinciale, l’unico ente elettivo e cioè il Consiglio. Se sommiamo tutto questo al ruolo preponderante che l’informazione ha assunto nell’orientamento della pubblica opinione, al fatto che in tre salotti televisivi si può decidere la vita o la morte dei partiti, e alla rete informatica che spesso non è neutrale e che soprattutto divide l’opinione pubblica tra chi sa destreggiarla e chi no, ne ricaviamo che il tema della democrazia, quello per difendere la quale Matteotti è morto, si ripropone oggi sia pur in forme e modi assai diversi. E così si riaccende il fuoco del riscatto sociale, del lavoro che oggi sfugge, soprattutto alle nuove generazioni, in una società che pare costruita all’incontrario. Cogli anziani che mantengono i giovani e col futuro che si nega a chi ne ha più diritto. Restano scolpiti in noi i valori della libertà e della giustizia sociale per affermare i quali hanno lottato uomini come Matteotti. E noi vogliamo continuare a combattere ricollegandoci a loro perché solo un partito che ha una storia è degno di avere un futuro, anche se non dispone di un solido presente. Questi siamo noi, noi che ci consideriamo eredi della bella storia del socialismo riformista e democratico, della bella storia di un’anima candida quale è stato Giacomo Matteotti.
Mauro Del Bue
Mauro Del Bue commemora Matteotti al museo Matteotti di Fratta Polesine nel 89° anniversario domenica 9 giugno 2013 |
Apparteneva però a quella stessa tendenza, alimentata di spirito pragmatico e di forte impulso ideale. Come quelli che lo avevano preceduto, come lo stesso Filippo Turati, Matteotti era stato avvinto dal socialismo come fonte di giustizia alle prese, com’erano tutti costoro, con la miseria opprimente delle popolazioni delle campagne, che faticavano a sopravvivere nonostante il duro lavoro ed erano vittime di gravi malattie e di una morte precoce. I socialisti sentivano amore per i più deboli, amore di giustizia, che aveva saputo rapire anche l’autore di Cuore, Edmondo De Amicis, il quale scrisse il fondo dell’Avanti in occasione del primo maggio del 1897, cinque mesi dopo la nascita del quotidiano socialista in quel freddo giorno di Natale del 1896. Giacomo Matteotti sapeva che per perseguire i suoi ideali non avrebbe dovuto attendere mitiche ore X, quello sciopero generale al quale faceva riferimento il soreliano Arturo Labriola, che poi si convertì al riformismo, più tardi flirtò col fascismo e poi morì comunista. Una delle differenze sostanziali tra riformisti e rivoluzionari, se ci pensate bene, è che i riformisti, tranne casi eccezionali, rimasero tali per tutta la vita, spesso i rivoluzionari cambiarono invece le loro convinzioni iniziali. Pensiamo, al di là del caso Mussolini che certo è il più eclatante, a quello di Nicola Bombacci che fondò con Bordiga il Partito comunista a Livorno nel 1921 e poi morì impiccato a testa in giù con la Buonanima. Turati, Prampolini, Treves, Matteotti rimasero loro stessi. E oggi ci propongono la sola versione di socialismo che non sia stata ripudiata dalla storia.
Giacomo Matteotti era nato a Fratta Polesine il 22 maggio del 1885 da una famiglia benestante, anche se di umili origini. Frequentò le scuole a Rovigo e si laureò in Giurisprudenza a Bologna nel 1907. La stessa laurea di Turati, di Prampolini, di Treves, lo stesso percorso di avvicinamento al socialismo. Più vicino al messaggio di Benoit Malon che di Marx, più attento all’ultimo Engels che ipotizzava con l’espandersi del suffragio universale una evoluzione democratica verso il socialismo, che non alle infatuazioni sindacaliste rivoluzionarie del primo novecento che prospettavano la violenza rigeneratrice e che poi verranno recepite anche da un altro messaggio politico, anche Matteotti si accosta al socialismo con una concezione costruttiva. E inizia a lavorare per la conquista dei pubblici poteri nelle amministrazioni locali, è infatti consigliere provinciale socialista di Rovigo nel 1910, mentre nel Psi ancora prevaleva la maggioranza riformista di Turati e l’esigenza di collaborare coi liberali alla Giolitti, per tutelare e allargare i diritti dei lavoratori. Di lì a un anno la fiducia in Giolitti vacillò. E quando il leader piemontese iniziò l’impresa coloniale di Libia la corrente riformista del Psi si spaccò. Da una parte Turati, Treves, Prampolini, lo stesso Matteotti, sia pur da un avamposto provinciale, dichiararono conclusa quell’esperienza, dall’altra Bissolati, Bonomi, Cabrini, invece, ritennero che la collaborazione dovesse continuare. I riformisti si divisero e ne approfittarono i rivoluzionari, tra i quali emerse con forza il carattere deciso e spavaldo di un giovane romagnolo nato a Predappio, quel Mussolini che di Matteotti diverrà il principale bersaglio dopo la sua conversione fascista. E che lo ripagherà come sappiamo. Al congresso di Reggio Emilia del 1912 i riformisti di destra vennero espulsi dal Psi dopo l’approvazione dell’ordine del giorno Mussolini, che di li a poco diverrà anche direttore dell’Avanti!.
E da allora la componente riformista resterà sempre in minoranza nel partito fino al congresso di Palermo del 1981. Matteotti, come Turati, Treves, Prampolini, Zibordi sarà poi su posizioni decisamente neutraliste di fronte al primo conflitto bellico, contrariamente a Bissolati e allo stesso Mussolini, che nel 1914 si distaccherà per questo dal Psi fondando il quotidiano “Il Popolo d’Italia”, di orientamento interventista, pubblicato anche grazie ai finanziamenti francesi. Matteotti, così come sarà il più deciso tra i riformisti a condannare il primo fascismo, scrutandone le pieghe, indagandolo nelle cause, denunciandone i soprusi, così fu il più intransigente tra i riformisti a condannare la guerra. Venne per questo minacciato dai nazionalisti e dopo un discorso tenuto nel 1916 fu addirittura condannato e internato a Messina per qualche tempo. Era evidente che la concezione costruttiva del socialismo, quella che nel 1921 a Livorno, Turati volle sottolineare come “il socialismo che diviene nelle cose e nelle teste” e che non è “il miracolo di un giorno o di un’ora”, e che “non diviene per altre vie che questa, perché ogni scorciatoia non fa che allungare il cammino”, perché “la via lunga è la sola breve”, quella composta di pubbliche amministrazioni da conquistare democraticamente, di sindacati e cooperative, di giornali e scuole pubbliche, di servizi municipalizzati, fermentata da organizzazione, educazione, riscatto, era evidente che tutto questo presupponesse il mantenimento e il rafforzamento della democrazia. La via riformista senza democrazia era un vicolo cieco.
Una vita senz’aria. Ecco perché furono soprattutto i riformisti a battersi contro il fascismo già dall’inizio, mentre i rivoluzionari comunisti pensavano che in fondo tra dittatura e democrazia borghesi non ci fosse differenza, e che anzi la prima potesse consentire di avvicinare l’ora della rivoluzione proletaria. Furono personaggi come Matteotti, Zibordi, lo stesso Carlo Rosselli, oltre a Piero Gobetti, che indagarono il fenomeno fascista, ne afferrarono la pericolosità e anche il livello alto di popolarità che poteva raggiungere in Italia a seguito della vittoria in guerra e dopo il tentativo, dopo l’ottobre bolscevico del 1917, di fare come in Russia. Due vie nuove, quella fascista e quella comunista, si erano così aperte per un’Italia in subbuglio in un dopoguerra in cui anche i socialisti compirono il grave errore di non capire le esigenze dei combattenti, che erano tornati dal fronte dopo un bagno di sangue che era costata la vita a 650 mila italiani, più del doppio delle vittime della seconda guerra, prevalentemente giovani e giovanissimi, e che aveva gettato nel lutto una parte cospicua di famiglie. Coloro che avevano avuto la fortuna di ritornare erano spesso osteggiati, mentre nei comuni conquistati dalla sinistra si gettavano alle ortiche le bandiere tricolore sostituendole con quelle rosse. Perfino Turati venne processato politicamente al congresso di Roma del 1918 perché aveva assunto, dopo Caporetto, una posizione favorevole alla difesa in armi del suolo patrio, minacciato dall’invasione austro-tedesca. La maggioranza del Psi s’infatuò, nell’immediato dopoguerra, del mito bolscevico e indicò nella dittatura del proletariato il suo obiettivo strategico. Si allargarono ancora più le distanze dentro il partito e al congresso di Bologna, nel 1919, il Psi scelse addirittura di aderire alla nuova Internazionale comunista, contro il parere dei riformisti divenuti nel frattempo una ristretta minoranza.
In quell’anno Giacomo Matteotti divenne per la prima volta deputato. In quelle consultazioni politiche, le prime col suffragio universale con soglia di accesso a 21 anni, ma che continuava ad escludere le donne, e col metodo proporzionale, il Psi raggiunge il suo massimo storico col 32 per cento dei consensi. Nelle consultazioni precedenti, quelle del 1913, era stato eletto nel collegio di Lendinara, in provincia di Rovigo, Giuseppe Soglia, un maestro romagnolo che era stato chiamato a Reggio Emilia per dirigere le scuole comunali. Una sorta di felice invasione reggiana nel vostro Polesine. Il Psi, nel 1919, era il primo partito e assieme ai popolari di Sturzo, neonati, disponeva della maggioranza del Parlamento italiano. Ci voleva poco a dar vita a un governo progressista. E invece i neo bolscevichi del Psi, da Serrati, che poi si rifiutò di espellere i riformisti nel 1921, disattendendo i 21 punti di Mosca, cosa che invece fece nel 1922, e con lui Gramsci, che sparava le sue raffiche contro i riformisti dalla colonne dell’Ordine nuovo, e con loro Bombacci e Bordiga, pensavano ad altro. Non alla via parlamentare, ma a quella insurrezionale. Si allargò un conflitto politico ed etico. Famosa la battuta dei tre pellegrini socialisti a Mosca Lazzari, Maffi e Riboldi di fronte a Lenin, i quali risposero, all’intimazione del padre della rivoluzione di scegliere la violenza, che erano “brave persone”. O l’analisi di Prampolini sulla dittatura del proletariato. Essendo il proletariato la maggioranza perchè non servirsi della democrazia? Sul mito russo il Psi si divise addirittura in tre fra il 1921 e l’ottobre del 1922. A Livorno, nel gennaio del 1921 nacque il Pcdi, e nel 1922 i riformisti furono espulsi dal Psi, che voleva unificarsi coi comunisti, nel 1924 Nenni lo impedirà, e nacque il Psu del quale Giacomo Matteotti fu segretario.
Matteotti, Turati, Prampolini espulsi dal Psi su ordine di Lenin, un atto che rappresenta una delle pagine più nere della sua storia, una storia che in realtà rinacque proprio grazie al Psu di Matteotti. Il segretario del nuovo partito socialista si schierò subito a favore dell’unità dei socialisti e nel 1924, dopo l’uscita dal Psi di Serrati e dei terzinternazionalisti, definiti terzini, che avevano direttamente scelto di iscriversi al Partito comunista, propose l’unità di tutti i socialisti specificando di essere sempre stato “favorevole all’unità perché, al di sotto delle frasi e delle forme”, egli scrive, “ho sempre visto una identità sostanziale tra tutti i socialisti e un’antitesi netta soltanto col comunismo”. Questo articolo venne pubblicato su “La Giutizia”, organo nazionale del Psu, a poche settimane dal suo discorso parlamentare. I massimalisti del Psi giudicavano impossibile l’unità col partito di Matteotti che non comprendesse anche i comunisti, proprio mentre il partito di Matteotti lanciava un’offensiva senza precedenti contro il fascismo. Matteotti aveva scritto nel 1923 un opuscolo di cento pagine, “Un anno di dominazione fascista”, che malgrado il sequestro a cui era stato sottoposto egli cercò di diffondere in tutta Italia. Già nel 1921 Matteotti aveva scritto l’ ‘Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia”, che denunciava le violenze durante la campagna elettorale del 1921.
Il suo martirio è sempre stato messo in relazione alle clamorose denunce contenute nel suo discorso parlamentare del 30 maggio del 1924. Fu Matteotti a denunciare i brogli e le irregolarità delle elezioni e ad accusare il governo di Mussolini di aver così violato più volte la legge. Matteotti, più che non altri, riteneva che nei confronti del fascismo non ci fosse altro da fare se non l’azione più risoluta per la denuncia delle illegalità e della violenza. S’era opposto recisamente a qualsiasi dialogo con Mussolini sconfessando i tentennamenti di Gino Baldesi e dello stesso Ludovico D’Aragona. Nel suo discorso tenuto alla Camera era stato più volte interrotto. Aveva proposto con un ordine del giorno di annullare le elezioni, ordine del giorno bocciato dalla maggioranza. Una volta terminata la seduta avrebbe confidato all’amico Giovanni Cosantini: “Adesso preparatevi a fare la mia commemorazione”. La repressione scattò subito. Nel pomeriggio del 10 giugno Matteotti scompare. Si viene subito a sapere che è stato aggredito da cinque sconosciuti e portato a forza nella loro automobile. Poco giorni dopo la sconcertante rivelazione. Matteotti è stato ucciso. I presunti responsabili vengono subito arrestati. L’opposizione parlamentare manifesta immediatamente la sua protesta per il barbaro omicidio e decide di astenersi dai lavori parlamentari. Nasce il cosiddetto Aventino. Si risalì subito all’auto usata per il prelevamento di Matteotti. Apparteneva a Filippo Filippelli, direttore del Corriere italiano. La Camera chiuse i lavori e vennero arrestati, tra gli altri, Cesare Rossi, capo ufficio stampa della presidenza del Consiglio che chiamerà in causa lo stesso Mussolini quale mandante dell’omicidio, Giovanni Marinelli, Filippo Filippelli e Amerigo Dumini, squadrista toscano, stipendiato dalla presidenza del Consiglio, assieme agli altri uomini che con Dumini facevano parte della banda (Albino Volpi, Giuseppe Viola, Amleto Poveromo, Auguto Malacria, tutti provenienti dall’arditismo milanese). Recentemente la pubblicistica sul delitto Matteotti avanza la tesi di un coinvolgimento nell’assassinio del leader socialista di ambienti legati all’alta finanza e alla monarchia, che proverebbe, per alcuni, la completa estraneità dal delitto di Mussolini, mentre per altri, pur con un movente diverso, la confermerebbe appieno. Il movente sarebbe costituito dal pericolo dell’esplosione di uno scandalo a seguito di un’annunciata interpellanza di Matteotti sulle tangenti pagate dalla società prolifera Sinclair, il cui testo sarebbe stato contenuto nella cartella sequestrata al momento del suo prelevamento e mai più rintracciata. Per alcuni queste tangenti avrebbero interessato direttamente la monarchia, per altri il governo.
Può anche essere che le ragioni fossero più d’una. di carattere politico e anche morale. Questo nulla toglierebbe alla nobiltà del gesto di Matteotti. Anzi, ne verrebbe vieppiù accresciuta la sua forza di combattente contro le violenze, la sopraffazione, l’immoralità. Il delitto sarebbe stato intenzionale secondo il figlio di Matteotti, Matteo, e glielo, avrebbe confermato l’autore, piangente, il Poveromo, in carcere nel 1951, poco prima di morire. Su Matteotti Turati ebbe parole ispirate alla più sentita commozione. Disse di lui: “Egli era il più forte e il più degno”. Il delitto Matteotti colpì al cuore il regime, che barcollò. Il fallimento della tattica aventiniana, la divisione dei partiti antifascisti, il ritorno in aula dei comunisti, finirono per indebolire la linea politica dell’opposizione e il fascismo riuscì a reggere a quella che pareva a tutti come il preludio della sua fine. Reggerà per altri vent’anni. Ma il mito di Matteotti durerà assai di più. E sarà consegnato alla storia come il sacrificio più puro di un temerario, eroico cavaliere della democrazia. Il suo coraggio resterà scolpito nella memoria di tutte le coscienze. Si potrebbe perfino paradossalmente sostenere che è stato Matteotti a uccidere Mussolini e non il contrario. Il suo messaggio si mostra per taluni versi a noi ancora attuale. Quello di un socialista riformista attento ai temi del lavoro e della solidarietà, che lottava nel suo territorio polesano per il riscatto delle plebi oppresse dalla miseria e dalla malattia. Quello di un democratico che sfida un regime costruito sulla violenza e la denuncia con ostinazione. Oggi Matteotti e più vivo che mai e dispiace che qualcuno voglia prendersi gioco della sua vita di uomo politico, di socialista democratico. Come furono i suoi figli, Matteo, segretario nazionale del Psdi, poi socialista autonomista del Psi, e poi, ancora, ministro socialdemocratico, e Giancarlo, più volte parlamentare, che segui il fratello nel partito di Saragat a qualche anno distanza e che ho avuto il piacere di conoscere nei corridoi della Camera dei deputati, dove a volte mi incrociava soffermandosi a parlare di politica con me. Ho avuto modo di leggere qualche giorno orsono un articolo, che riprendendo una recente pubblicazione, conteneva accuse alla famiglia di Matteotti, che non riprendo, perché fuori tema e luogo, e critiche anche su di lui, a proposito delle violenze che si consumarono nel biennio rosso nella sua provincia. Francamente non comprendo come egli avrebbe potuto, in una realtà arretrata e densa di lotte aspre, controllare e guidare ogni lega, ogni sollevazione, ogni occupazione, ogni fermento sociale. Ma accusare Matteotti di essere complice o quanto meno neutrale rispetto a qualsiasi forma di violenza, lui che è morto per le sue denunce contro la violenza, mi pare assurdo e paradossale.
Viviamo oggi in un sistema politico con partiti senza storia e a volte anche senza idealità. Posso anche aggiungere che negli ultimi anni abbiamo vissuto una profonda crisi di democrazia, con parlamentari nominati dai leader dei partiti e non scelti dai cittadini, con sindaci, presidenti di province e regione che nominano i loro assessori, con listini regionali che cooptano i consiglieri, mentre abbiamo deciso di sopprimere le circoscrizioni nelle città con meno di 250 mila abitanti e di eliminare, nella istituzione provinciale, l’unico ente elettivo e cioè il Consiglio. Se sommiamo tutto questo al ruolo preponderante che l’informazione ha assunto nell’orientamento della pubblica opinione, al fatto che in tre salotti televisivi si può decidere la vita o la morte dei partiti, e alla rete informatica che spesso non è neutrale e che soprattutto divide l’opinione pubblica tra chi sa destreggiarla e chi no, ne ricaviamo che il tema della democrazia, quello per difendere la quale Matteotti è morto, si ripropone oggi sia pur in forme e modi assai diversi. E così si riaccende il fuoco del riscatto sociale, del lavoro che oggi sfugge, soprattutto alle nuove generazioni, in una società che pare costruita all’incontrario. Cogli anziani che mantengono i giovani e col futuro che si nega a chi ne ha più diritto. Restano scolpiti in noi i valori della libertà e della giustizia sociale per affermare i quali hanno lottato uomini come Matteotti. E noi vogliamo continuare a combattere ricollegandoci a loro perché solo un partito che ha una storia è degno di avere un futuro, anche se non dispone di un solido presente. Questi siamo noi, noi che ci consideriamo eredi della bella storia del socialismo riformista e democratico, della bella storia di un’anima candida quale è stato Giacomo Matteotti.
Mauro Del Bue
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